A Bagheria venivano cucinate nella prima mensa pubblica della città per sfamare i poveri
Da un articolo scritto da Giuseppe Martorana e pubblicato su giornale online “La voce di Bagheria” si legge chiaramente quale poteva essere il menù di quelle che poi divennero le cosiddette “Cucine economiche”. La descrizione del pranzo del 27 marzo 1895 a Bagheria, uno di quelli che all’epoca venivano programmati in occasione di eventi particolari e che venivano offerti ai poveri è chiara: “preparato, organizzato e servito dai fratelli Scirè e da altri volenterosi che nei giorni precedenti erano andati in giro per il paese raccogliendo offerte in denaro e in beni materiali. In Piazza Madrice furono disposte, a ferro di cavallo, alcune tavole attorno alle quali si sistemarono centocinquanta poverelli che poterono gustare un’abbondante minestra di pasta, legumi d’ogni sorta e verdura (la cosiddetta minestra di San Giuseppe), neonata di sardella in umido, sarde fritte, pane, vino e frutta”.
Questo era il cibo nelle cucine economiche, di solito aperte e gestite da organizzazioni umanitarie cattoliche, che videro la luce in Italia nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, e non a caso le prime sorsero nell’ex Stato Pontificio subito dopo la presa di Roma del 1870 volute da Pio IX, il quale desiderava che “l’esercito dei poveri avesse sempre una minestra calda” (come possiamo leggere dall’articolo di Giuseppe Martorana).
Ma andiamo al pesce che era presente, sopratutto la sarda, molto popolosa nei nostri mari a quel tempo. Sarda che alla fine del 1800 era già protagonista di attività di salagione nella città di Palermo, ma che vedeva i borghi di Aspra e soprattutto quello di Porticello luoghi di nascita e residenza delle maestranze specializzate. La sarda e la sua sorella acciuga fanno parte di quella famiglia di pesci che il comune parlare definisce “pesce povero”. Oggi più che poveri, possiamo definirli meno noti, ma molto presenti e stagionali per cui il loro consumo può permetterci di contrastare lo sfruttamento del mare. Specie meno richieste, certo, proprio perché meno note, ma altrettanto gustose che hanno bisogno solamente di una reintroduzione nelle nostre cucine partendo magari da una nuova informazione e soprattutto comunicazione che coinvolga gli chef e le loro proposte.
Nelle cucine economiche dell’epoca, a Bagheria ne sorse una per merito del Barone Petix che costituì un’associazione di beneficenza denominata Principe di Palagonia, e nel mese di Marzo del 1901 fu inaugurata, il pesce era locale e soprattuto fresco.
Sul fronte pesce fresco, sottolineamo il fatto che le specie di pesci del Mediterraneo commestibili sono circa 300, senza contare crostacei e molluschi. Quindi sorge una domanda: perché non diversificare le nostre scelte, salvaguardando anche la biodiversità dei nostri mari?
Quelli che ci ostiniamo a chiamare Pesci Poveri disponibili nei mari italiani sono: aguglia, alaccia, alalunga, alice, alletterato, boga, cicerello, costardella, fasolaro, lampuga, lanzardo, leccia, merluzzetto o busbana, muggine, moscardino, occhiata, pagello, palamita, patella, pesce castagna, pesce sciabola, pesce serra, potassolo o melù, sardina, sciabola, sgombro, spratto, suacia o zanchetta, sugarello, biso o tombarello, zerro.
La maggior parte dei quali è ancora presente nel tratto di mare del Tirreno Meridionale oppure, trasportato qui, dalla flotta mercantile di Porticello e poi venduto nei nostri mercati.
Dato il “basso impatto ambientale” perché il loro utilizzo ai fini alimentari allevia la pressione di pesca sulle specie più conosciute (esempio: tonno oppure il dentice) ed anche il diverso valore commerciale, queste specie potrebbero diventare protagoniste di un consumo che nella nostra Costa d’Oro sarebbe a “centimetro zero” più che al chilometro.
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